Prima siamo passati da “mio figlio è un mostro”, poi si è scoperto che la madre che ha pronunciato questa condanna morale, avrebbe accompagnato l’assassino reo confesso di Giulia Tramontano, a domandare nei negozi intorno al garage dove il corpo della sventurata (tra l’altro incinta) è stato occultato, se per caso ci fossero state delle telecamere. Tradotto, per la vulgata se c’erano prove che avrebbero potuto inchiodare irreversibilmente il figlio Alessandro Impagnatiello? In realtà questo può non essere dirimente visto che all’epoca si cercava la ragazza ancora in vita.
Domanda ovvia: ma se non ci fossero state il figlio l’avrebbe scampata?

L’iter psicologico e comunicativo di Sabrina Paulis, la madre del barman, non sarebbe nuovo da leggere, se confermata la prima ipotesi, perchè assomiglierebbe al percorso iperprotettivo di tante madri.

Staccandoci dal caso di cui ancora non conosciamo i dettagli.

Senza scomodare quella di uno dei mostri del Circeo (Ghira) che si affrettò a pulire il sangue nella villa dove fu commesso lo stupro di gruppo, costato la vita a Rosaria Lopez, e che intervistata disse che “ogni scarrafone è bello a mamma soja”.
Concetto e posture antiche che hanno a che vedere col “familismo amorale”. Cioè, tutto ciò che rientra nella sfera e nella dimensione privata, domestica, famigliare risponde a codici morali alternativi a quelli in vigore all’esterno. I membri del clan sono “corpi fisici” dei capi (struttura patriarcale o matriarcale che sia) e quindi, vengono strutturalmente e militarmente difesi, giustificati, relativizzando il bene e il male, le regole e le leggi. E tutto quello che è esterno al clan è ostile, nemico, oggetto di mera predazione.

Se aggiungiamo al familismo amorale, uno dei vulnus storici e genetici italiani, l’attuale consumismo, l’effetto dei social (l’individualismo di massa, le pulsioni dell’io), dove ogni cosa si compra e si butta in un nano secondo, dove ogni desiderio deve diventare obbligatoriamente un diritto, si spiega facilmente come, di fronte a casi di continui femminicidi, omicidi, stupri, al di là delle colpe dei singoli, ci siano anche delle cause oggettive.

E qui, va detto, c’è un rapporto stretto tra vittime e carnefici. Come mai tanti uomini usano il corpo delle donne come una proprietà esclusiva, non distinguendo assolutamente tra amore e possesso e pertanto non sopportano di essere lasciati, duro colpo al loro ego ipertrofico e infantile?
E come mai tante donne per la maggioranza empatiche, non capiscono mai l’uomo narcisista patologico? Riuscendo a cogliere in tempo i primi chiarissimi segni e segnali di tossicità?

La spiegazione è semplice e complessa. Oltre alla cultura dominante c’è il ruolo nefasto e ormai diseducativo, antipedagogico, di tante, troppe famiglie, istituzione da decenni in crisi irreversibile. E’ il lascito negativo di padri assenti, svirilizzati da una cultura che tende ormai a delegittimare ogni forma di autorità naturale demonizzandola, e di madri colte dalla sindrome della “Fata turchina”. Che disegnano per i figli una vita magica, immune dal mondo esterno, dalle relazioni fisiche, dalle prove. Che costruiscono castelli (bolle autoreferenziali e autocentrate) chiusi, vellicando l’ego dei maschi, a cui tutto è dovuto e tutto gira loro intorno. Insomma dei viziati, resi di fatto “eunuchi” dalle madri piovre. Questa è l’origine di quella anaffettività e mancanza di empatia che è alla base di ogni mostro che è in noi. L’empatia, l’affettività implicano una capacità di mediare, di andare verso l’altro. In una parola, di amare.

Non si salvano neppure le donne. Nate e cresciute per essere principesse, corteggiate, eternamente sedotte, finiscono per perdere i confini tra il sentimento e la morbosità pericolosa del “sedicente principe azzurro”, finendo quasi sempre male.
Dove nasce la mistica dell’uomo giusto, perfetto, che ti porta in carrozza? Dalla narrazione delle madri e dal legame spesso “falso” col padre.
Un protagonismo che si declina nel fatto che amando il “bandito” (che comunque affascina, attrae), non ci si sposa o non ci si unisce quasi mai col “cavaliere” (che annoia). Ma attenzione: il bandito resta bandito, non un uomo che può essere trasformato a comando in servitore-cartone animato (“sindrome della crocerossina”).

Ecco, Alessandro Impagnatiello doveva restare un bandito. Ai primi sintomi del male, alla larga. Non ci si va in vacanza insieme a Ibiza. Atteggiamento sbagliato pure se comprensibile, nell’ottica dell’ultima chance.
Un uomo che uccide perché stressato dalla doppia relazione, e perché la notizia è di dominio pubblico (conta più la gente che la verità) e che durante l’arresto si specchia e si aggiusta il cappellino, deve restare un bandito. Non recupera.