Adesso, dopo la ventata moralista e giustizialista, pregiudizialmente colpevolista, assisteremo all’annacquamento graduale delle tesi accusatorie e addirittura al fatto che la madre del bambino di 5 anni morto sulla Smart a Casal Palocco avrebbe commesso un’imprudenza, non dando la precedenza al Suv e quindi, nella sostanza sarebbe corresponsabile dell’incidente?
Il risultato sarà per caso simile alla storia che ha coinvolto il calciatore laziale e della nazionale Immobile? Pari e patta? Non sapremo mai la verità?

Ma al netto del dolore di una famiglia, lucidamente espresso via web dal padre di Manuel Proietti (“mio figlio strappato da un mondo infame”), ciò che interessa è analizzare i vulnus in cui viviamo, che causano tali e tanti lutti.
E non sono accettabili né la bava alla bocca, né il perdonismo facile, né il giustificazionismo da parte di genitori, politici, giornalisti di pura estrazione borghese-libertaria, che ricordando come erano prima, attenuano colpe e responsabilità, prendendosela come al solito, “sociologicamente con la società”, ignorando un principio irrinunciabile e giuridico che è la responsabilità penale soggettiva.

Se c’è una colpa della società circa uno degli sport preferiti dagli youtuber, sport che contempla e obbliga ad atteggiamenti estremi, come correre a fari spenti nella notte, o per 50 ore per le strade di Roma e non solo, a tutta velocità, bypassando regole, limiti, segnali e persone, mettendo a rischio la vita dei malcapitati, o saltando dai balconi dei grattacieli, o organizzando risse senza motivo, o buttandosi nei canali di Venezia, a suon di adrenalina e guadagni facili, lo si deve in primis, agli effetti distorti dei social (specialmente dopo il lock-down).
New media che formano ormai da decenni i giovani confinandoli dentro bolle autoreferenziali, autocentrate, parallele, rispetto alla realtà vera, relativizzando il mondo esterno come se fosse un eterno video-gioco, una immensa play-station.

Una società che non dà più valori e trasmette unicamente disvalori (il post berlusconismo): spettacolo, immagine, apparenza, successo, sesso, soldi, sangue, individualismo.
Anziché correre come pazzi, filmando bravate, sorrisi ebeti ed esternazioni folli, perché questa adrenalina non si riesce a provare andando in guerra, facendo volontariato, al servizio della comunità, aiutando i più fragili, o spalando le macerie dei terremotati o il fango degli alluvionati, come ha fatto una parte eroica, purtroppo minoritaria, di giovani?
E’ facile rischiare per sfida nichilista, da viziati, partendo e tornando nelle proprie casette dorate, magari pure con la paghetta di mamma e la macchina di papà.

Rischiare con 1.500 euro in tasca, per concorrere a un campionato a premi per salire nel gradimento di Borderline, è facile. A meno che non ci scappa il morto.

La domanda sconsolante è: quale identità cercano in modo così disperato e disperante questi ragazzi? Da quali incubi vengono? Che faccia tosta hanno nel vantarsi delle loro imprese e addirittura riprendere da cinici disumani la scena post-incidente, quasi eccitati per quello che hanno combinato? Come se il danno, il dolore altrui, gli altri non esistessero.

Sicuramente una colpa maggiore ce l’hanno le famiglie, istituzione da anni in crisi. Genitori sindacalisti dei figli, incapaci di educare, di distinguere tra bene e male, sempre pronti a condividere, minimizzare, coprire. Lo abbiamo già scritto: come italiani siamo il combinato disposto tra il familismo amorale e il ’68. Padri assenti, spesso inesorabilmente goliardici fuori tempo massimo, con la mistica del consumo, presi solo dal loro ego (professionale, esistenziale), e madri dentro la “sindrome della Fata Turchina” (la famiglia come fiaba magica, dove il mondo esterno è il male, una terra da predare).
Quando anche un amico dei quattro youtuber, alias “social idioti”, parla di “incidente” e non di uccisione, vuol dire che i significati morali sono ormai rovesciati, finiti.

Se la verità non si chiama più per nome è inutile qualsiasi percorso di comprensione della realtà e relativo pentimento, presupposto basilare per ogni cambiamento.
E adesso le cronache si stanno concentrando sulla presunta amnesia della madre del piccolo Manuel, mentre Matteo Di Pietro, pur da indagato, dopo l’incidente risultato positivo all’esame tossicologico (qualche giornale politicamente corretto ha sostituito il termine con “non negativo”, tanto per gradire), sembra sia fuggito all’estero.
Al di là della verità giudiziaria, quella storica resta e resterà. Come resta il padre di Matteo, Paolo, funzionario del Quirinale, al centro di inchieste poi archiviate, che bacia macchine sportive e corre col figlio senza cintura. Evidentemente colto dalla medesima ebbrezza.
Ecco il punto: la famiglia, di padre in figlio.